Posts written by ilvento71

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    Stamáta Revíthi

    Stamáta Revíthi

    Non ha nemmeno trent’anni e già sembra una vecchia. I suoi capelli, una volta biondi e fluenti, ora sembrano fili di paglia bruciati dal sole. Il suo corpo, un tempo formoso e ammirato, è diventato esile, emaciato, trasformato dalla fame e dalla sofferenza. Le sue ossa si sono fatte affilate e ora premono sulla pelle sottile, quasi a volerla lacerare.
    Da troppo tempo, ormai, Stamáta Revíthi combatte contro la sfortuna e le avversità della vita. Tirare avanti senza più il marito – forse morto, forse fuggito con un’altra –, senza uno straccio di lavoro e con un figlio di diciassette mesi da sfamare – ché il primogenito se lo è appena portato via una malattia – non è facile.
    Eppure non è stato sempre così. I ricordi dei giorni felici di quando era bambina sono ancora vivi dentro di sé. Impossibile scordare quelle corse a perdifiato sulle bianche spiagge di Siro, la sua isola. O le conchiglie e le stelle marine, riversate sul litorale dall’Egeo in tempesta. E poi, da ragazza, quei riccioli ribelli, quella stretta forte e decisa, quegli occhi neri come la pece, ricchi di amore e di eterne promesse che la strapparono per sempre dalla sua terra.
    “Farai una vita da signora”, le avevano pronosticato, non senza una punta di invidia, le sue amiche di allora, appena saputo che di lì a poco avrebbe salpato per il Pireo.
    “Se mi vedessero ora!”, pensa Stamáta con amarezza, mentre cammina su quella sterrata lunga nove chilometri dove non ci passa quasi mai nessuno. Sul viso un reticolo di rughe precoci, in braccio il piccolo che strilla dalla fame, addosso il vestito della domenica – uno straccio pieno di rattoppi, polvere e sudore –, ai piedi dei miseri zoccoli di legno.

    Un incontro cruciale
    È diretta ad Atene, Stamáta. A piedi, ché i soldi per la carrozza proprio non ce l’ha. Pazienza, l’importante è lasciare quel villaggio che consuma la sua vita come una candela. Vuole – deve – trovare un lavoro a tutti i costi. Il figlio rimasto merita almeno una possibilità.
    È ottimista, Stamáta. Un viaggiatore capitato qualche giorno prima in paese le ha detto che nella capitale stanno per inaugurare i primi giochi olimpici moderni. Che, a dire la verità, lei non sa nemmeno bene cosa siano. Sa, però, che arriverà un sacco di gente da tutto il paese e financo dal resto del mondo: trovare un impiego, uno qualsiasi, non dovrebbe essere impossibile.
    È con questi pensieri che va incontro al suo destino, che si materializza sotto forma di un giovanotto contagiato – come tanti in quei giorni – dalla febbre olimpica. Il ragazzo sta correndo da solo, sognando allori e fama imperitura. E, tuttavia, appena incrocia quella signora vestita di stracci con in braccio un bambino si ferma immediatamente. L’allenamento può aspettare, così come i sogni di gloria. Quella donna e quel fagottino gli fanno tenerezza: vuole sapere ogni cosa di lei, la sua storia, i suoi sogni, le sue speranze. È anche generoso, l’aspirante atleta. Prima che riprenda la sua gara immaginaria mette infatti le mani al borsello e regala a Stamáta tutto quello che ha dentro. Non prima, però, di averle dato uno strano consiglio.
    «Perché non corri la maratona olimpica?».

    Sembra una presa in giro, ma non la è. Il giovanotto ha infatti saputo che l’organizzazione ha promesso ai migliori piazzati un lavoro, un calesse, un cavallo, perfino un matrimonio da favola. Il tutto, naturalmente, sottobanco. I severi precetti decoubertiniani vietano infatti ogni forma di professionismo. Ne sa qualcosa il nostro Carlo Airoldi che, arrivato a piedi dall’Italia per partecipare proprio alla maratona, viene escluso per un misero rimborso spese ottenuto, qualche mese prima, dopo una corsa disputata in Francia.
    Sembra strano, ma le parole del ragazzo convincono la Revíthi. È vero, non è più la ragazza sana e forte di una volta: è affamata, magra ed emaciata. Eppure la sua vita complicata la porta ancora a percorrere lunghe distanze a piedi. Cammina e corre più di un uomo, Stamáta, abituata fin da bambina alle corse spensierate e senza fine sulle bianche spiagge di Siro.
    E poi è caparbia. Se si mette in testa una cosa non c’è verso di farle cambiare idea. E così, giovedi 9 aprile 1896 – il 28 marzo, secondo il calendario giuliano –, si reca a Maratona, il villaggio da dove il giorno dopo partirà la gara olimpica. In testa ha un solo desiderio: correre – appunto – la maratona.

    una fase della maratona del 1896

    una fase della maratona del 1896

    L’arrivo a Maratona
    Gli atleti, i curiosi e i giornalisti convenuti fin lì per la corsa stentano a credere alle loro orecchie quando sentono quella signora così male in arnese pretendere di iscriversi alla competizione. Lei, una donna!
    Mentre i giudici – che non sanno cosa fare – prendono tempo, i giornalisti, fiutato lo scoop, sottopongono l’aspirante atleta a una raffica di domande. Lei risponde a tutti, sempre con una punta di pudore, ma anche con la determinazione e la sfrontatezza di cui è capace.
    «Tre ore, tre ore e mezzo. Forse anche meno» sostiene spavalda quando le chiedono quanto ci avrebbe messo per completare la distanza.
    Stamáta viene accolta, rifocillata e ospitata dal sindaco del villaggio, il signor Koutsogiannopoulos. Non prima, tuttavia, di aver rispedito al mittente la battuta feroce di uno dei partecipanti. L’atleta – un greco rimasto anonimo – le dice infatti che se anche fosse riuscita ad arrivare fino in fondo, ci avrebbe messo così tanto che avrebbe trovato lo stadio chiuso. Lei replica ricordandogli le recenti umiliazioni subite dagli atleti ellenici ad opera di quelli statunitensi.

    La mattina dopo Stamáta si reca nella chiesa di San Giovanni per ricevere la benedizione. Ma Papaioannis Veliotis, il prete, si rifiuta: la Revíthi, infatti, non è un’atleta. Almeno non ufficialmente. Subito dopo, poi, i rappresentanti del comitato organizzatore respingono la sua domanda di iscrizione, in quanto formulata oltre i termini consentiti. Una motivazione pretestuosa, smentita anni dopo da David Martin e Roger Gynn, storici dello sport, che individuano nel suo essere donna la vera causa della sua esclusione.
    Stamáta protesta, cerca di far valere le sue ragioni, ma non c’è niente da fare. Per rabbonirla gli organizzatori le promettono l’inclusione in una squadra femminile americana che avrebbe dovuto partecipare a una corsa successiva. Che, naturalmente, non avrà mai luogo.
    La gara parte e Stamáta, con un groppo alla gola, vede gli atleti scappare via veloci verso Atene. È solo un attimo poi, testarda com’è, si riprende. In un attimo decide che se delle regole assurde le proibiscono di gareggiare, lei dimostrerà comunque di avere tutte le carte in regola per coprire gli oltre quaranta chilometri della competizione.

    Verso Atene
    Così, mentre nella capitale ancora si festeggia il vincitore, il connazionale Spiridon Louis, il giorno dopo – sabato 11 aprile, 30 Marzo per il calendario giuliano –, la donna di Siro si alza di buon’ora, convoca il giudice, il maestro e il sindaco di Maratona e li prega di firmare un foglio in cui attestino il luogo e l’orario della sua partenza.
    Stamáta, infatti, ripeterà da sola il tracciato olimpico. Lo deve a se stessa, al suo essere donna e al suo bambino. È infatti convinta, da popolana ingenua quale è, che il re o il principe ereditario, venuti a conoscenza della sua impresa, non resteranno insensibili e garantiranno a lei e a suo figlio un futuro sicuro.
    Sono le 8 in punto quando Stamáta si toglie gli zoccoli e inizia a correre. L’arrivo è lontano e il suo fisico logorato da una vita piena di stenti, ma non importa. Per tutto il percorso, infatti, la donna tiene un ritmo costante e poco dispendioso.
    Alle 13,30 la Revíthi entra in Atene, stanca, sporca e sudata. Gli organizzatori non le permettono tuttavia di entrare nel monumentale stadio Panathinaiko, come invece avrebbe voluto. La fermano prima, precisamente a Parapigmata, dove oggi sorge l’ospedale Evangelismos. Qui alcuni ufficiali dell’esercito testimoniano per iscritto, dietro sua richiesta, l’ora di arrivo in città. Tempo impiegato per coprire la distanza: cinque ore e mezzo, due in più di quelle previste.
    «Ma solo perché mi sono fermata un paio di volte ad ammirare delle navi che entravano in porto» si giustificherà in seguito, non senza una punta di malizia.
    Ai reporter convenuti dichiara di voler incontrare al più presto il Segretario generale del Comitato Olimpico Ellenico, il signor Timoleon Philimon, così da illustrargli la sua impresa corredata da materiale documentale.

    Ecco, la vicenda umana di Stamáta Revíthi termina qui, inesorabilmente inghiottita dalle spire del tempo. Nulla si sa della sua vita successiva, né se sia finalmente riuscita a trovare un lavoro e dare così un solido futuro al suo piccolo. Né se il re o il principe ereditario seppero mai della sua impresa.
    Ciò che è rimasta, grazie anche alla minuziosa ricerca di alcuni storici, è la sua corsa scalza e solitaria da Maratona ad Atene, testimonianza di una caparbietà e di una voglia di lenire le ferite di un’esistenza sfortunata che hanno del grandioso.
    Stamáta non comparirà mai negli annali ufficiali del Comitato Olimpico. La sua impresa verrà menzionata per la prima volta soltanto nel 1975 nell’Annuario dell’Atletica Femminile. Misteriosamente, però, il nome stampato su quelle pagine non è Revíthi, bensì Melpomene.
    Qualcuno sostiene che si tratti di un’altra atleta, anche lei non ammessa alla corsa in quanto donna e, come lei, capace di ripetere in solitaria i quarantadue chilometri e rotti della gara. Plausibile, anche perché il tempo riportato sull’Annuario da questa atleta è di quattro ore e mezza, una in meno della nostra.
    A noi, però, piace pensare che Melpomene e Stamáta siano la stessa persona, come del resto ritiene la maggior parte degli storici. Quale miglior soprannome, infatti, di quello della musa della tragedia, sarebbe stato possibile cucire addosso alla sfortunata e coraggiosa ragazza dell’isola di Siro?
    Eschilo, di sicuro, ci avrebbe ricavato una storia con i fiocchi.

    FONTE - STORIEDISPORT.IT
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    GLI STORICI DEL CALCIO considerano il 16 maggio 1931 come la data di nascita del "Wunderteam", la squadra delle meraviglie. In quella domenica i bianchi di Hugo Meisl sbalordirono pubblico e avversari piegando sul campo della Hohe Warte la rappresentativa scozzese per 5-0.I critici più entusiasti gridarono al miracolo, i più scettici consigliarono di attendere nuove prove, prima di promuovere senz'altro l'esperimento tentato dal Ct austriaco. Le nuove prove arrivarono e fissarono identici esclamativi al termine dei novanta minuti: 6-0 e 5-0 alla Germania, 2-0 alla Svizzera, 2-2 con l'Ungheria, 8-1 ancora alla Svizzera, 2-1 all'Italia di Pozzo, 8-2 sull'Ungheria, 1-1 con la Cecoslovacchia, altra regina del calcio danubiano, poi 4-3 alla Svezia, 3-2 sugli eterni rivali danubiani dell'Ungheria, 3-1 alla Svizzera, l'unica sconfitta, 3-4, con l'Inghilterra a Stamford Bridge, 6-1 al Belgio e infine, il 12 febbraio 1934, 4-0 alla Francia. Erano trascorsi tre anni, tre anni di incontrastato dominio sul continente (con la parziale eccezione per l'isolata Inghilterra), che si infransero ai Mondiali 1934 proprio sull'Italia di Pozzo, in semifinale, 1-0 per gli azzurri a Milano grazie a un discusso gol di Guaita. E comunque, anche in quella circostanza, non senza aver prima confermato i valori assoluti della squadra (successi su Francia e Ungheria).

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    COME NASCEVA il fenomeno "Wunderteam"? Una fioritura di campioni eccezionale, vanto di una scuola calcistica presto affermatasi come una delle più raffinate. Il calcio d'altronde aveva trovato terreno fertile nell'Impero austro-ungarico, all'epoca il fornitore delle migliori morfologie razziali del continente. Dopo la prima guerra mondiale, Austria, Ungheria e Cecoslovacchia produssero il football migliore d'Europa (ovviamente, Inghilterra esclusa), come attestano i successi di club nella Mitropa Cup, la Coppa dei Campioni dell'epoca: prima dell'interruzione bellica, quattro successi per Austria e Ungheria, tre per la Cecoslovacchia e solo due per l'Italia, che pure in quegli anni a livello di Nazionale faceva man bassa di titoli.

    LA PRESENZA di talenti di notevole spessore è particolarmente propizia in quegli anni agli sviluppi tattici, portando a sublimazione stilistica il Metodo, di cui proprio la Nazionale austriaca diventa interprete inarrivabile, sotto la guida di Hugo Meisl, ex calciatore, arbitro e dirigente di alto livello. L'elaborazione tattica del grande tecnico, messa a confronto con quella del suo amico Vittorio Pozzo, conferma come uno stesso modulo possa essere piegato ad esigenze strategiche molto diverse,
    ugualmente sortendo grandi risultati. Meisl era un convinto fautore del gioco offensivo, per lui il Metodo rappresentava il modulo ideale per l'esercizio della superiorità territoriale cui ambiva. Proverbiale il suo culto per il gioco, che lo fece inorridire di fronte alle marcature rigide e al gioco a lunghi traversoni del Sistema inglese.


    «PER GIOCATORI TECNICI ed intelligenti non c'è un sistema fisso» scriveva nel 1935. «A cominciare dal portiere, tutti devono collaborare ad un lavoro costruttivo preciso ed efficace. Sicuro, anche il portiere. Egli, come i terzini, i mediani e gli attaccanti, non deve lanciare la palla senza direzione. Costruire! Anche il portiere può essere ispiratore di un attacco passando il pallone con precisione ai compagni delle linee avanzate. Dello stesso spirito costruttivo, ma in misura maggiore, devono essere animati anche i terzini e i mediani. Tutti gli undici uomini di una squadra devono stare sempre in movimento, per non permettere all'avversario di indovinare le loro intenzioni. Il mediano sinistro, con un improvviso ma tempestivo traversone all'ala destra, può
    determinare un capovolgimento vantaggioso dell'andamento di una partita. Sempre in azione e continuamente diretti verso la porta avversaria! Anche un mediano, se l'occasione si presenta, può dal centro del campo avanzare di sorpresa fin sotto la rete dell'altra squadra e segnare il suo goal. Naturalmente, un compagno deve immediatamente prendere il posto del mediano
    che si è spostato all'attacco. Secondo il momento e secondo la situazione si deve passare la palla raso terra o alta, con tocco lieve o forte, con passaggio lungo o corto. Non bisogna mai passare sui piedi del compagno, ma avanti a lui, nello spazio libero, per non arrestarlo nella sua avanzata. Questo è dunque il mio sistema: nessun sistema. Intelligenza, velocità e sorpresa sono gli elementi del successo. Per noi continentali il Metodo di giuoco di gran lunga più conveniente e più efficace è quello consistente nel creare sicure occasioni di segnare attraverso combinazioni precise, intelligenti, abilmente intessute, scientemente elaborate, distinte dalle "sciabolate" tirate a casaccio».

    DAVANTI AL PORTIERE HIDEN, due terzini "larghi", Blum e il poderoso Schramseis, pronti a porsi in verticale per schiacciare l'avversario nella sua metà campo sotto la spada di Damocle del fuorigioco; due mediani forti anche nel rilancio, Braun e Nausch (che poi verrà avanzato a mezzala nel modulo "a mediano volante"), adibiti al controllo delle ali avversarie; il centromediano Hoffmann, con la sua netta propensione a dirigere il gioco, facilitato dal lavoro dei terzini che spingono il centravanti avversario a smistare il gioco più che a cercare di concludere; infine, un attacco a cinque, con, da destra a sinistra, Zischek, Gschweidl, il leggendario centravanti "Cartavelina" Sindelar (eccelso nei fondamentali, perfetto sia nel dribbling che nel tiro), Schall e Vogel.

    UNA MACCHINA DA GOL, con i cinque attaccanti tutti rigorosamente avanzati, la "W" offensiva del modulo appena accennata e il rischio di squilibrio tattico compensato dall'impegno di tutti gli avanti all'"attacco degli spazi", come cinquant'anni dopo predicherà un certo Arrigo Sacchi. Nella sostanza, cinque punte sempre in movimento, alacri nel cercare di recuperare palloni in proprio, pressando sulle linee arretrate avversarie. Lo spettacolo andò in scena con i risultati detti, che tuttavia, a livello di
    trofei importanti, portarono "solo" la prestigiosa Coppa Internazionale, alla sua prima edizione.

    SFUGGIRONO INVECE IL TITOLO MONDIALE e quello olimpico, per... colpa dell'Italia, vincitrice degli scontri diretti rispettivamente in semifinale e in finale (1934 e 1936).Meisl morì nel 1937 a 56 anni per un attacco di cuore mentre era al lavoro in Federazione, appena in tempo per risparmiarsi il dolore di vedere il suo Paese risucchiato dai cugini tedeschi nell'Anschluss, l'Annessione a opera del Terzo Reich che avrebbe cancellato il calcio austriaco dalla scena. Il favoloso Sindelar morì suicida due
    anni dopo, consegnando all'immortalità la sua straordinaria vicenda di fuoriclasse.

    FONTE - STORIEDICALCIO.ORG
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    Renato_Curi

    Riaffiorano i brividi, sull'onda di un singolare scambio via radio. «Scusa Ameri, qui a Perugia...» «Ho già capito tutto, Ciotti, e ti passo la linea». Ma il grande Enrico Ameri non poteva immaginare, come tutti gli sportivi in ascolto quella maledetta domenica, che Sandro Ciotti non chiedeva il collegamento per intervistare qualche personaggio catturato al volo dopo il calcio minuto per minuto, ma per consegnare un terribile annuncio: «Il centrocampista Curi del Perugia è morto».

    Domenica 30 ottobre 1977. A Perugia, nello stadio di Pian di Massiano, si gioca Perugia-Juventus. Gli umbri, guidati da Ilario Castagner, sono protagonisti di un piccolo miracolo di provincia e benché il campionato tocchi quel giorno appena la quinta giornata, il primo posto in graduatoria a pari merito con le grandi Juventus e Milan ha acceso nuovamente i riflettori su questa
    nuova realtà del calcio italiano. Fatta di un modulo in qualche modo "totale" (in omaggio alla moda dei tempi), che significa soprattutto una squadra in cui tutti corrono e si sacrificano per il bene comune. E in cui peraltro non mancano individualità magari non di assoluto spicco, ma certo di valore. Se Novellino ha le stimmate del campione, due centrocampisti, il regista Curi e
    l'interno Vannini, l'uno il più piccolo del torneo (1,65) l'altro l'anima più lunga (1,90), sono considerati esponenti tipici delle migliori qualità della provincia. Hanno classe insomma, e possono portare lontano la squadra.

    La partita con la Signora del Trap è di quelle bloccate, martoriata da una pioggia battente, su un terreno zuppo d'acqua, faticosissimo da tenere per i giocatori. Nel primo tempo Curi, uno dei migliori in campo per la puntualità della gestione della manovra, si infortuna leggermente in uno scontro con Causio. Nella ripresa tuttavia rientra, ma dopo cinque minuti, sotto la pioggia, si accascia improvvisamente al suolo. Il gesticolare disperato dei giocatori juventini accanto a lui, Benetti, Bettega e Scirea, fa pensare a qualcosa di grave, ma nessuno riesce a comprendere, non essendosi visti contrasti di gioco violenti. Arriva la barella, il
    giocatore esanime viene portato fuori dal campo.
    I medici del Perugia gli praticano due iniezioni, il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca: Curi è paonazzo, il battito del cuore è inceppato. Mentre la partita, tra compagni e avversari ignari, prosegue, viene caricato su un'autoambulanza e portato al Policlinico di Perugia. Dove tuttavia arriva praticamente cadavere: i tentativi di rianimarlo proseguono per una quarantina dì minuti, finché, alle 16,30 (in lugubre, perfetta contemporaneità con la fine della partita fischiata dall'arbitro Menegali) il giocatore viene dichiarato ufficialmente morto. Una fine terribile per la sua fulmineità.

    Come sempre accade, un attimo dopo sì scatenano le polemiche. Si apprende che il giocatore ammetteva senza problemi, scherzandoci su, di avere "il cuore matto", dunque i medici potrebbero avere avuto qualche responsabilità nella sua tragica fine. Perché non gli era stato impedito di mettere a repen taglio la propria vita? E poi: il giocatore era reduce da un infortunio a una caviglia, fino all'ultimo la sua presenza in campo era stata incerta.
    Curi era importantissimo per il gioco del Perugia e anche dal punto di vista psicologico contava averlo in campo: suo era stato il gol alla Juventus che nell'ultima giornata del campionato 1975-76 aveva sottratto lo scudetto alla Signora, regalandolo al Torino. «In termini clinici» aveva assicurato il medico del Perugia alla vigilia «il giocatore è perfettamente guarito: le uniche perplessità riguardano la sua attuale tenuta atletica». E allora non era stato forse forzato quel rientro? Due giorni dopo, martedì 1 novembre, la "Gazzetta dello Sport" annuncia: «Curi non è stato fermato in tempo». Decisiva la dichiarazione del professor Severi, autore dell'autopsia: «È stata trovata una malattia cronica del cuore capace di dare morte improvvisa».
    Le polemiche sì scatenano furiose, per placarsi a poco a poco, secondo consolidato quanto cinico copione, dopo qualche giorno, sull'urgere dì altre attualità. Il compagno di squadra Lamberto Boranga, portiere e medico, avanza l'ipotesi che il giocatore conoscesse i rischi cui andava incontro, ma li mettesse nel conto della sua passione per il calcio, cui gli sarebbe parso impossibile rinunciare.

    Ma chi era Renato Curi? Non un campione nel senso pieno del termine, forse stava diventandolo, come spesso capita al culmine di carriere nate in sordina e costruite con serietà e professionalità anno dopo anno. Era nato ad Ascoli Piceno il 20 settembre 1953 ed era cresciuto nel Giulianova, con cui aveva esordito in Serie D. Quattro stagioni, con la promozione in C, e il posto da titolare a diciassette anni, segno di un talento autentico. Instancabile motorino di centrocampo, aveva il dono di saper far girare i compagni, trovandosi sempre nel vivo del gioco. A vent'anni, la prima occasione gliel'aveva offerta il Como, ma quella stagione
    in B non era stata esaltante. Allora lo aveva preso Castagner al Perugia, venendone ripagato con la pronta promozione in A. Un evento storico, così come la brillantissima salvezza dell'anno successivo. L'umile gregario, avanzando l'esperienza, si scopriva regista di eccellente puntualità anche nella massima serie.


    Ma a ventiquattro anni appena il suo sogno doveva essere spezzato. In una intervista, così aveva spiegato il "moto perpetuo " del suo gioco:
    «Non so dire come mai corro tanto. Ho polmoni come gli altri, una certa vocazione per la corsa, da ragazzo ero buon mezzofondista, 800, 1500, 3000 metri. E poi ho un cuore matto, capriccioso. Dicevano che ero malato, pensate un pò. Dal Giulianova al Como ebbi un intoppo. E mi mandarono al Centro Tecnico di Coverciano perché il cuore aveva battiti irregolari. Però è un cuore di atleta, si assesta appena compio degli sforzi. Quando corro,quando mi affatico, i battiti diventano perfetti. Come capitava a Bitossi, il campione ciclista che chiamavano appunto Cuore matto».
    La vicenda giudiziaria si trascinò per qualche anno, chiudendosi in primo grado con l'assoluzione e poi in appello con una lieve condanna (un anno coi benefici di legge) per il medico del Perugia e quello del Centro Tecnico di Coverciano. Il pubblico ministero nella sua appassionata arringa aveva detto: «Quando un giocatore entra in una squadra professionistica, diventa solo un numero per tecnici, medici, dirigenti».


    FONTE - STORIDICALCIO.ORG
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    Storie-di-ingaggi-2
    La retribuzione di un calciatore è uno degli aspetti più importanti della sua carriera. Come i grandi attori hollywoodiani, anche le stelle del football mondiale pongono come condizione essenziale un contratto particolarmente vantaggioso con il proprio club e anche con gli sponsor. Tuttavia questo concetto non è sempre appartenuto alla storia ultracentenaria del calcio mondiale. Anzi.

    Nell'epoca degli albori il vero tabù era la busta paga. I primi club inglesi furono solo per dilettanti. Le vittorie furono pagate soltanto con il sudore e gli applausi. C'erano solo dei modesti rimborsi spese, che spesso non coprivano le uscite dei singoli calciatori per i viaggi e le giornate di lavoro perse.

    Nel 1882 c'erano voci di piccoli incoraggiamenti sottobanco e The Football Association reagì immediatamente minacciando di sospendere qualsiasi club che si fosse reso colpevole di questa infrazione. Ma la doppia contabilità era, comunque, all'ordine del giorno. Il Preston North End e il Blackburn Rovers furono un esempio coraggioso per quei tempi con la decisione di dare ai loro
    migliori giocatori una regolare retribuzione. Erano cifre irrisorie rispetto ai maxi contratti odierni, tuttavia fecero scalpore.

    Lo Stoke City, per esempio, pagava ai suoi uomini due scellini e sei denari per settimana, ossia una sterlina ogni due mesi. Nel 1883 il furbo Bolton Wanderers escogitò un sistema (per lui) redditizio: ogni giocatore riceveva un premio di due scellini e sei denari vincendo la gara, ma se la squadra perdeva, a ogni membro del club veniva addebitata la stessa somma. Una delle prime star assolute del calcio di tutti i tempi fu senza dubbio Steve Bloomer: giocava nel Derby County, ma anche lui doveva accontentarsi di poche sterline.

    Privilegi eccezionali ottennero i primi sudamericani giunti in Italia con la scappatoia dello status di oriundi. Tra lo stipendio di 8000 lire al mese - più una vettura Fiat 509 - di Raimundo Orsi e la media delle retribuzioni italiane, le differenze erano abissali. Un maestro guadagnava 400 lire al mese, mentre un magistrato sfiorava le famose 1000 lire della canzonetta. I nuovi ingaggi nel calcio erano, insomma, un fenomeno ancora ridotto, certo. Ma in crescita. E se fino all'esplosione del secondo conflitto mondiale la media dei calciatori che ricevevano un regolare stipendio era, appena, dell'uno per cento, negli anni 50 la storia cambiò radicalmente.

    Le retribuzioni erano ormai ufficiali per tutti i calciatori: la differenza erano sul «quanto». E nella storia delle buste paga dei giocatori italiani - tranne qualche rara eccezione - il vero salto di qualità avvenne col boom economico degli anni 60. Da allora l’escalation è stata inarrestabile. L'apertura agli sponsor e l'introduzione della cessione dei diritti televisivi hanno portato ai valori attuali. Che rasentano l'incredibile: l'incidenza delle retribuzioni porterà presto molti grandi club a un disavanzo
    finanziario pericoloso.

    Oltre ad ingaggi spaventosamente alti, a questi vanno aggiunti gli introiti che i maggiori calciatori ricevono dagli sponsor. Vale a dire le grandi aziende di abbigliamento sportivo e non solo che, attraverso l'immagine dei vari campioni, hanno sfruttato il veicolo della pubblicità. In queste condizioni di mercato, la carriera del giocatore di pallone ha subito una radicale trasformazione.

    Oggi la media degli stipendi «globali» è talmente cresciuta da mettere al riparo gli atleti da quelli che, fino a trent'anni fa, erano i cattivi investimenti o le vere e proprie truffe, che spesso spingevano grandi stelle sul lastrico nel breve spazio di un mattino. Anche per questo, di pari passo con la crescita degli emolumenti, s'è fatta strada nel mondo del calcio, intermediario tra la figura dei club e quella dei calciatori, la professione del procuratore.

    Un vero e proprio professionista - da anni ormai riconosciuto in un albo prefissato dalla Figc - che cura gli interessi del calciatore, tentando di strappare sempre l'accordo più vantaggioso in cambio di una percentuale che varia a seconda delle circostanze. Una figura che ha sviluppato così in fretta la sua immagine da attirare su di sé parecchie critiche. Non ultima, quella di chi sostiene che sono i procuratori - con le loro scelte e le loro decisioni - a determinare realmente l'andamento delle cessioni e degli acquisti tra un club e l'altro.

    Sarebbe, insomma, questa schiera di uomini con la valigetta ventiquattr'ore, esperti di diritti e di contratti, la vera padrona del calcio moderno. Un'esagerazione, certo. Che tuttavia ribadisce ancora una volta -ammesso che ce ne fosse bisogno - come gli ingaggi e gli uomini che li determinano siano diventati parte fondamentale del football del nuovo millennio

    FONTE - STORIEDICALCIO.ORG
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    Anconetani_Romeo_1

    Sempre protagonista, nel bene e nel male. Portò i nerazzurri dalla C alla A, lanciò talenti come Kieft e Simeone Antesignano
    dei moderni procuratori, aveva acquistato il Pisa nel 1978 e lo aveva lasciato nell' estate 1994, dopo il fallimento. Un presidente d'altri tempi, polemico, vulcanico, scaramantico, un irascibile mangia-allenatori. Famosi i suoi riti col sale e i suoi pellegrinaggi. Trattava i giocatori come figli eppure era capace di assumere provvedimenti durissimi nei loro confronti. Un' avventura, la sua, nel mondo del calcio che merita di essere ricordata

    Nel calcio ci era entrato prestissimo. Toscano, nato per caso a Trieste il 27 ottobre 1922, a poco più di 30 anni era già segretario del Prato. Poi, nel 1955, venne scoperto a cercare di aggiustare Poggibonsi-Pontassieve. Corruzione e conseguente radiazione a vita. Un colpo duro ma non per lui che trova una nuova strada grazie a una licenza della camera di commercio di Pisa: mediatore. Praticamente il nonno dei procuratori di oggi. Si presenta al calciomercato al «Gallia» e fa subito centro. E' al fianco di «raggio di luna» Selmosson a Roma e poi di Claudio Sala, il futuro «poeta del gol» al suo arrivo a Torino. E' «mister cinque per cento», tanto guadagna da ogni affare, e stupisce tutti con un un archivio da far paura; si narra di oltre 5 mila pagine (altro che computer...) con dati e caratteristiche di centinaia di giocatori.

    Nel 1978 ha una grande casa a Pisa, due ville a Castiglioncello, un'altra all' Abetone, ha un pingue conto in banca e una scuderia di cavalli, ma gli manca qualcosa. Quello che gli offre il costruttore Rota: il Pisa. Diventa proprietario, ma non presidente per quella radiazione, fino al 1982, quando la vittoria mundial consentì l'amnistia. Quel giorno del 1978 comincia un' avventura durata sedici stagioni di alti e bassi, di liti, di successi, aggressioni, lacrime e anche sangue.

    «Il Pisa sono io», disse un giorno e quella frase sarebbe diventata lo slogan del suo regno, anzi della sua dittatura, altro che gestione. Ventidue allenatori cambiati in sedici campionati (Boniek il record, durò tre ore e mezzo...), scontri epici con tutti. A cominciare dai tecnici. Da Simoni a Lucescu, da Guerini a Materazzi, da Vinicio a Montefusco, tutti costretti a subire la sua
    ingombrante presenza, i suoi suggerimenti (ha sempre negato di dare consigli o, peggio, fare formazioni ma con scarsi risultati) pena il divorzio, esonero o dimissioni che fossero.


    Gli disse un giorno del 1991 Agroppi «Non torno, preferisco vivere». E questo chiarisce bene l'idea. Con i giornalisti anche peggio: quando sbottava, dopo una partita o durante un ritiro, ce n'era per tutti. Con quella sua voce stridula e ruvida come la carta vetrata era capace di augurare maledizioni e brutte malattie, di minacciare radiazioni (lui se ne intendeva...) dall'albo professionale e stroncature di carriera. Insopportabile duce di tutto quanto si muovesse intorno al Pisa. Lo stesso faceva coi giocatori, trattati talvolta come figli, addirittura serviti a tavola in ritiro oppure accompagnati a messa alla domenica mattina o ancora omaggiati di quadri d'autore o trascinati, portafogli in mano, a comprare scarpe o cappotti. Oppure trattati come nemici,
    costretti a estenuanti ritiri in un albergo di Pescia che si diceva di sua proprietà, zittiti e rimbrottati sul campo, addirittura pedinati. Inarrivabile nello scovare talenti sconosciuti, nel valorizzarli e nel rivenderli: dal danese Berggren, suo primo colpo col Pisa in A, pagato 270 milioni e rivenduto quattro anni dopo per 4 miliardi. Oppure l' olandese Kieft, acquistato per 760 milioni e rivenduto per 5 miliardi. O ancora Carlos Dunga, capitano del Brasile campione del mondo nel 1998, preso per 600 milioni e rivenduto alla Fiorentina per un miliardo, o l'argentino Diego Simeone, per concludere con un altro danese, Larsen, diventato campione d'Europa e con Chamot.

    Ma anche incredibile e scaramantico, come nei pellegrinaggi alla Madonna di Montenero o nel lancio del sale propiziatorio sull'erba dell'Arena Garibaldi: nel dicembre del '90, prima della partita col Cesena, poi vinta, ne sparse ben 26 chili. Aveva ragione, il Pisa era lui: capace di scrivere quasi giornalmente, e inviare personalmente, centinaia di fax alle redazioni dei giornali («si smentiscono le notizie apparse»), di rispondere al telefono fingendosi centralinista per fare «filtro» nei confronti di se stesso, di fare piazzate indecorose per l'uso smodato di penne biro in società, di spiegare al cuoco come cuocere la pasta in ritiro e al magazziniere come risparmiare sulle bende.


    Amato, Romeo, a Pisa per le quattro promozioni in A e per la conquista di una Mitropa Cup, ma anche mal sopportato, ferito nell'ottobre 1993 da una bottiglia lanciata dalla sua stessa curva rischiò di perdere un occhio. Non c'erano mezze misure, né per lui, né con lui, né intorno a lui. Se n'era andato nell'agosto del 1994 con un clamoroso fallimento conseguenza di un dissesto finanziario che nemmeno le buone amicizie in Lega e in Federazione riuscirono né a giustificare né anascondere.

    Seguirono collaborazioni col Genoa e col Milan come consigliere e come osservatore, ma la grande avventura dell' ex mediatore
    arrivato a sedersi al tavolo dei Berlusconi e dei Boniperti si era ormai conclusa, soffocata da un calcio nel quale non può trovare più posto la figura del presidente - azzeccagarbugli, un po' orco e un po' padre, fine intenditore, scopritore di talenti, ma con un'anima da mercante levantino. Ma anche completamente fuori dal tempo, da questo tempo, inarrivabile protagonista (come Rozzi ad Ascoli o Sibilia ad Avellino) di un calcio finito dall'incalzare dei miliardi, dalle tv, dagli sponsor, dall'immagine.

    Se ne va in silenzio nel novembre 1999 dopo una settimana di coma, culmine della malattia incurabile che lo affliggeva da tempo. Non ha cambiato la storia del calcio ma quella del Pisa sì. Ed è un'avventura che, malgrado tutto, merita di essere salvata. Della sua generazione (Rozzi, Viola, Mantovani, Allodi, Fraizzoli) sono morti in tanti, il folclore è diminuito, l'onestà e la competenza nonsono cresciute, la falsità e l'arroganza di sicuro. L'umanità, solo un ricordo.




    FONTE - STORIADELCALCIO.ORG
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    GLI INIZI
    Nato ad Asiago il 13 aprile 1928, figlio di un ferroviere e di una casalinga, Allodi fin da giovane si riconosceva un talento ancora tutto da scoprire ma non da sprecare in una vita da ferroviere (i genitori gli fecero fare l'esame da capostazione ma lui scappò).
    «All'inizio - raccontava - avevo dinanzi tre possibilità per diventare qualcuno. A parità d'interesse, c'erano il calcio, la pittura, il giornalismo». C'è stato un periodo in cui Allodi si occupava di tutte e tre le cose insieme. «Un giorno ho dovuto fare una scelta precisa. La scelta è stata dura ma necessaria. Mi occorreva denaro per vivere. Il denaro poteva immediatamente venire soltanto dal gioco del calcio».

    E il calciatore fece, ma di piccolo cabotaggio, approdando come massimo in serie C. Non doveva effettivamente essere un granchè se Edmondo Fabbri, allora al Mantova, lo prese dicendogli chiaro e tondo: "Vieni, ma sta buono e occupati di altro". Diventò "segretario" della società scavalcando ben presto col suo dinamismo le tradizionali prerogative della carriera. Gestì così bene la società, portandola in serie B, che quando Angelo Moratti si trovò ad aver bisogno per l' Inter di uno sveglio e capace, se lo prese subito. In quegli anni, alla fine dei 50, c'era un personaggio del nostro calcio che dettava legge dall'alto della sua autorevolezza di manager: «Gipo» Viani, il cervello pensante e organizzativo del Milan.

    GLI ANNI DELL'INTER
    A lui sicuramente si ispirò Allodi quando, giunto a Milano chiamatovi dal presidente dell'Inter, intuì che la sfida con cotanto rivale poteva soltanto finire male se lui non si fosse impegnato «intus et in cute» nel ruolo che Moratti gli aveva affidato. All'Inter, oltretutto, doveva talvolta scontrarsi con un tipo piuttosto spigoloso dal carattere fermo e grintoso, ossia Helenio Herrera, il tecnico appena arrivato ad allenare la squadra. Eppure, unendo diplomazia a risolutezza, muovendosi con disinvoltura in un
    ambito non sempre costituito da amici comprensivi, Allodi pervenne a stabilire un rapporto intelligente, efficiente e proficuo con il clan tecnico e con quello dirigenziale. Sull'asse Moratti - Allodi -Herrera nasceva la leggenda dell' Inter euromondiale, capace di conquistare tre scudetti dal '63 al '66 e di aggiudicarsi consecutivamente due Coppe dei campioni e altrettante intercontinentali.
    A suo merito indiscutibile sono da attribuire gli ingaggi di Luisito Suarez, colonna portante dei successi nerazzurri in quel periodo, di Jair Da Costa, infine quasi quasi di Pelé, addirittura, che non vestì la maglia dell'Inter per il timore di una sollevazione dei tifosi del Santos. La fama di Allodi ingigantiva di stagione in stagione man mano che l'Inter accresceva il numero dei suoi trionfi.

    Se è vero che, sul piano tecnico, a Herrera va ascritto il merito di una conduzione esemplare, se è altrettanto giusto riconoscere a Moratti la saggia e insieme incisiva partecipazione - da presidente oculato - alle sorti della squadra, va pur detto e sottolineato che Italo Allodi rappresentò per l'Inter un modello ideale in un campo che, a quell'epoca, ancora aveva il sapore di inedito.

    "Merito di una grande organizzazione, all'epoca unica" spiegava Allodi, che nelle questioni tecniche era entrato soltanto una
    volta, per suggerire a Herrera una tattica meno spregiudicata dopo una storica sconfitta sul campo del Padova di Rocco.
    Nasceva anche la leggenda del manager che manovrava acquisti e cessioni, che consigliava, imponeva e vietava, muovendosi nei saloni dell' Hotel Gallia con stile impeccabile, volontà di ferro e abilità diabolica.
    Avrebbe potuto fare di più, per la Grande Inter. Così ricorda in un’intervista del 1997:
    «Avevo in pugno Eusebio e Beckenbauer. Un giorno il fenomenale portoghese venne in Italia, a Venezia, per sciogliere un voto a San Marco. Lo incontrai e lo portai a Milano, nell'ufficio di Angelo Moratti. Stretta di mano e dichiarazione di Eusebio: "Presidente, se lascio Lisbona, lo faccio solo per l'Inter". Un'estate catturai Beckenbauer. Era in vacanza sull'Adriatico e lo convinsi a trasferirsi all'Inter. Firmammo il contratto a Cesenatico, nel capanno balneare del conte Rognoni, proprietario e direttore del Guerin Sportivo. Mi tradì però la federazione, che nel 1965 chiuse le frontiere. Pelé lo bloccai grazie a Gerardo Sannella (una specie di procuratore primordiale che portò Jair a Milano). Era tutto fissato: il contratto con il giocatore, la cifra da versare al Santos per il cartellino: sarebbe costato seicento milioni di lire di trent'anni fa. Una somma enorme, per l'epoca. Moratti non avrebbe avuto problemi a "coprirla", ma si fece prendere da certi scrupoli. C'erano le prime avvisaglie del '68, nelle fabbriche cominciavano a dilagare scioperi e rivendicazioni salariali. Per evitare polemiche, mollammo la presa e Pelè restò dov'era". Eusebio, Beckenbauer e Pelè».

    Tre colpi mancati per un niente. C'era anche chi lo accusava di ammaliare gli arbitri con regali costosi, ma lui tagliava corto: «Balle. Se bastassero un orologio d'oro o una pelliccia di visone, saremmo tutti campioni del mondo».

    Allodi_Italo
    GLI ANNI DELLA JUVENTUS
    Mentre Angelo Moratti lasciava l'Inter, l'avvocato Agnelli voleva rifondare la Juventus che navigava nei bassifondi delle classifiche. E Allodi approdò a Torino come segretario generale rifondando la società bianconera e gettando le basi di quella futura struttura modello che la Juve può ancora vantare nei confronti di molti altri club. Fu Allodi ad acquistare giocatori giovanissimi dal luminoso avvenire: Bettega, Causio, Furino, Zoff, Cuccureddu...

    Curioso l’aneddoto su questultimo: "Giampiero - disse Agnelli a Boniperti chiamandolo da Cortina appena seppe di quell' acquisto - ma come può uno che si chiama Cuccureddu giocare nella Juve?".
    Ormai la sua personalità si imponeva sia per l'acutezza degli orientamenti, sia per la soluzione di problematiche sulla stregua di una maturata esperienza.

    Però Boniperti non lo amava: c'era posto soltanto per un gallo, nel pollaio juventino. Troppi regali, e poi Allodi era un fanatico del protocollo, coltivava lo pubbliche relazioni, azzeccava gli acquisti, dominava il mercato, curava i dettagli, tesseva tele importanti ma anche imbarazzanti. Godeva di una personalità forte e ambigua. Venerato in pubblico, chiacchierato in privato: una sorta di Andreotti calcistico.

    L'APPRODO IN FEDERAZIONE
    Lascia la Juventus nel 1974 dopo due scudetti e viene chiamato nel clan Azzurro da Franchi per sostituire il Mandelli messicano nel ruolo di tutore di Valcareggi. Non ebbe fortuna, i laziali, da Chinaglia in giù, gliela giurarono e la spedizione sfociò in uno squallido ko.

    Diventò direttore tecnico di Coverciano, un posto che in mano a chiunque altro sarebbe diventato una sinecura tranquilla dove percepire uno stipendio facendo il meno possibile. E invece Allodi reinventò il calcio moderno, l'università di Coverciano dove si studiava da allenatori e da manager. E si studiava talmente bene che Allodi fu chiamato a sua volta a tenere una conferenza alla Bocconi di Milano. Fu il primo a scovare nelle pupille allucinate di Arrigo Sacchi la luce del predestinato: «Sarà il nuovo Herrera».

    Ma intanto in ambiente federale sotto la cenere covava una rivalità senza fine con Bearzot. Per la verità a tutte le domande su questo argomento, Allodi ha sempre risposto di non sapere perchè Bearzot ce l'avesse con lui, di avergli scritto più volte lettere di pace, senza mai ottenere risposta. Non è difficile immaginare che due uomini così diversi, tanto integralista Bearzot quanto pragmatico e agile Allodi, non potessero in alcun modo andare d'amore e d'accordo. Certo è che dopo il trionfo spagnolo del 1982, alla vigilia del quale Allodi aveva espresso molte perplessità, Bearzot chiese la sua testa, e la ebbe.

    GLI ULTIMI ANNI
    Dopo i mondiali del 1982 accettò la direzione organizzativa della Fiorentina dei Pontello, portandovi Lele Oriali, uno dei primi giocatori strappati a parametro. Il feeling in riva all’Arno non durò a lungo. Fece una pausa allietando, con la sua eloquenza suadente, il pubblico della Domenica Sportiva, poi il Napoli. Una città non facile per un manager "asciutto" come lui. Venne assunto come consigliere del presidente Ferlaino.

    Arrivano i giorni di Maradona e poi lo scudetto. Ma anche l'inizio del suo malinconico crepuscolo. Nella primavera del 1986 era stato coinvolto nella seconda, lacerante puntata dello scandalo scommesse. Ne era uscito assolto, però macchiato, segnato e sconvolto. L'accusavano di aver manipolato il risultato della partita con l'Udinese. "Sono stato accostato ad Al Capone, ho perso la serenità, passo le notti in bianco" si lamentava, attribuendo alla vicenda il trauma che il 12 gennaio 1987 gli sarebbe costato un ictus. Poche ore prima il Napoli aveva festeggiato il titolo d'inverno, prologo alla conquista del primo scudetto della sua storia. L'ultimo capolavoro di Allodi. Si riprese a fatica, e, sempre a fatica, uscì pian piano dal suo mondo.

    I suoi ultimi anni trascorsero in una sconfinata amarezza. A chi gli era rimasto amico e lo raggiungeva con qualche telefonata, oppure passando per Firenze con una breve visita, Italo confidava di sentirsi così estraniato da non riconoscere più l'ambiente del calcio che andava mutando. Soprattutto, senza che lui lo ammettesse, si intuiva una sua mortificazione per essere finito in un cono d'oblio. Morì in una clinica di Firenze, stroncato da uno scompenso cardiocircolatorio il 3 giugno 1999 a 71 anni portando con sé per sempre grandiosi successi e insondabili misteri.

    Il suo nome resterà legato ai trionfi dell' Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera, al ciclo juventino dei primi anni Settanta, alla costruzione del Napoli vincente con Diego Maradona. Per quasi trent' anni e' stato nel cuore del potere del calcio italiano. E lavorando dietro le quinte, come un cardinale Richelieu, ha contribuito a traghettarlo dall'era premoderna al terziario di fine secolo. Bello come un attore anni Cinquanta, affascinante quanto serviva, Allodi e' stato il primo a capire l'importanza delle pubbliche relazioni nel calcio. Il suo charme, i mezzi di Moratti e quelli degli Agnelli piu' tardi, gli hanno permesso di aprire qualsiasi porta.

    Ai tempi d'oro, dominava tutte le trame del mercato e controllava bene, pare, anche le abitudini degli arbitri. Come tutti gli uomini potenti, ha avuto molti complici e qualche nemico. Anche perchè si è trovato dentro a un crocevia, nella storia del nostro calcio. E molto ha fatto per strapparlo in avanti, ben capendo che il futuro sarebbe stato di allenatori e manager formati su basi scientifiche. Da qui l'idea dell' Università di Coverciano, istituita nel 1976, che è ancora un modello per il calcio mondiale

    FONTE - STORIEDICALCIO.ORG
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    Tra i tanti record inanellati dal Grande Torino, c’è anche quello riguardante l’imbattibilità tenuta tra le mura amiche da Valentino e compagni, nel corso del periodo in cui costruirono la loro imperitura leggenda. Il mito del Filadelfia, in effetti, è uno dei più duraturi del nostro calcio, un mito costruito in quella che, a ragione, ancora oggi i cantori del Grande Torino definiscono una tana. Tanti fattori concorsero alla costruzione del mito del Filadelfia, a partire dal trombettiere che suonava la carica quando sembrava che i granata fossero sul punto di mollare alla corrente avversa. Eppure, c’è stata una gara, nel corso di quegli anni, durante la quale quella imbattibilità sembrò sul punto di crollare, anzi, bella che crollata. La partita in questione, si giocò il 30 maggio del 1948, nel quadro della trentasettesima giornata e vide Valentino e compagni contrapposti alla Lazio. Nonostante la evidente differenza tecnica tra le due formazioni, i biancocelesti, dopo soli venti minuti si ritrovarono in vantaggio per 3-0, grazie alle reti di Puccinelli al quarto minuto, di una autorete di Grezar al tredicesimo e di una segnatura di Penzo al ventesimo minuto. Un avvio così traumatico avrebbe smontato qualsiasi squadra, come del resto sembrò fare con il Grande Torino. La Lazio, infatti, forte di quel triplo vantaggio sembrava ormai padrona del campo e giocava sul velluto, senza che i granata riuscissero ad abbozzare la minima reazione. Poi, però, accadde un fatterello che avrebbe avuto una importanza fondamentale nell’economia della gara. Il difensore della Lazio Piacentini, un ex di lungo corso, cominciò a prendere in giro Gabetto, in stretto dialetto piemontese, chiedendogli se le tre reti prese potessero bastare o ne servissero altre. In un primo momento, il centrattacco granata non rispose, poi, però, visto che Piacentini continuava, lo apostrofò così: “Stett bon, Sarusin, stett bon…” Sarusin (piccolo Sarosi) era il soprannome che era stato affibbiato al difensore dai suoi compagni ai tempi della permanenza in granata e Piacentini avrebbe fatto meglio a capire che non era il caso di stuzzicare l’orgoglio di Gabetto. Invece fece l’errore di continuare a sbeffeggiarlo e a quel punto la frittata era fatta. Il Grande Torino, infatti, era noto in tutto il mondo calcistico italiano per un piccolo particolare: i famosi quarti d’ora cui Valentino e compagni davano vita quando si trovavano alle strette. Era una specie di scintilla, che si propagava dal capitano, che di solito era colui che apriva le danze, al resto della squadra e che in breve bruciava le speranze degli avversari di farla franca. Anche in questa occasione, la reazione dei granata non tardò ad arrivare, anche se fu necessario più del canonico quarto d’ora. Già al venticinquesimo, infatti, Casigliano accorciava le distanze, ma probabilmente sarebbe servito a poco se proprio Gabetto, quando mancavano solo due minuti allo spirare del primo tempo, non avesse eluso la guardia del suo diretto avversario e avesse ulteriormente accorciato le distanze. A quel punto, alla Lazio restavano poche speranze, come si incaricò di dimostrare la seconda frazione di gioco, che si aprì con un Torino proteso all’attacco con tutti i suoi effettivi e la squadra capitolina rinserrata nel proprio fortino, nella disperatamente difesa di quanto rimaneva del largo vantaggio dei primi venti minuti. Fu un vero bombardamento e al decimo minuto, ancora Castigliano aveva già pareggiato il conto. Ma non era ancora finita, poiché sei minuti più tardi, fu capitan Valentino ad incaricarsi di sotterrare del tutto le speranze laziali, andando a cogliere la rete del 4-3. Era l’ennesima impresa di una squadra che non ha avuto eguali nella storia del nostro calcio e alla Lazio rimase la piccola consolazione di essere stata la squadra che più delle altre andò vicina alla grande impresa di violare il Filadelfia.

    Torino-Lazio 4-3
    Torino: Bacigalupo; Ballarin, Tomà; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Martelli, Gabetto, Mazzola, Ossola;
    Lazio: Gradella; Remondini, Piacentini; Brunetti, Alzani, Del Pinto; Puccinelli, Cecconi, Penzo, Magrini, De Andreis;
    Arbitro: Sig. Agnolin di Bassano
    Reti: p.t. Puccinelli 4′ Grezar (aut) 13′ Penzo 20′ Castigliano 25′ Gabetto 43′ s.t. Castigliano 10′ Mazzola 16′

    FONTE - ILCALCIODIUNAVOLTA.MYBLOG.ORG
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    La storia del calcio italiano, nei primi decenni del ventesimo secolo, quando il gioco arrivato dall’Inghilterra iniziò a propagarsi lungo lo stivale, è fatta soprattutto di dinastie. Tra le più famose, vanno sicuramente annoverate quella dei Cevenini, ben cinque, e dei Martin, quattro. Anche i Borel, contribuirono a questa storia con tre rappresentanti. Il primo dei quali, Ernesto, giocò nella Juventus dal 1906 al 1910, caratterizzando il suo per entusiasmo e potenza grezza, derivante questa seconda da un fisico tozzo e abbastanza sgraziato. La sua militanza juventina, si intersecò con quella del barone Mazzonis, un facoltoso torinese che negli anni a seguire sarebbe divenuto presidente della squadra torinese. E’ questo un particolare molto importante di questa storia, perché proprio Mazzonis, un bel giorno si presentò sugli spalti del campo Filadelfia, al fine di ammirare le evoluzioni di un ragazzino del quale gli erano state raccontate meraviglie. Quando aveva capito che il ragazzino in questione, di nome Felice Placido, era il figlio del suo vecchio compagno di squadra, decise di sacrificare un poco del suo prezioso tempo libero, per andare a constatare di persona.
    Cresciuto nei famosi Balon Boys, i ragazzini del Torino che dovevano il nome a Baloncieri, cui la squadra era stata dedicata espressamente, Felice Placido aveva potuto in quegli anni affinare le sue doti agli ordini del mitico Karlo Sturmer, un tecnico austriaco che proprio coi ragazzini, in quei decenni, fece meraviglie, prima a Torino e poi a Roma, alla Lazio, prima di scomparire inghiottito dalla Seconda Guerra Mondiale. Sotto le cure di Sturmer, Borel crebbe in maniera esponenziale e la sua fama si sparse presto in tutta la città. Quando Mazonis si rese conto del vero prodigio calcistico che stava maturando, decise di portarlo alla Juventus e il ragazzino aderì all’invito. Nacque così la leggenda di “Farfallino”, che prese le mosse dai guai al ginocchio del centravanti Vecchina, ottimo giocatore che però stava declinando a causa dei ripetuti infortuni. Proprio per cercare di ovviare al suo ormai prossimo addio, che avrebbe lasciato alla Juventus il problema di riempire in maniera degna il buco che si sarebbe creato all’attacco, il tecnico Carcano decise all’inizio della stagione 1932-33 di lanciare Felice Placido Borel, anche se nelle prime gare lo fece giocare da interno di punta. Poi, però, avanzò al centro dell’attacco e la sua esplosione fu rapidissima e fragorosa, Nei primi due nani di carriera, Farfallino, come fu affettuosamente chiamato da stampa e tifosi, andò alla strepitosa media di una rete a partita. Poi, arrivarono i guai ad un ginocchio e gradatamente fu costretto ad arretrare all’interno del campo, mettendosi al servizio dell’amico Gabetto, anche perché il ginocchio non smise mai di fare le bizze, tanto da fargli dire a ripetizione che giocava con una gamba sola. Nell’estate del 1941, passò al Torino ed ebbe un ruolo decisivo negli sviluppi che avrebbero portato alla nascita dello squadrone di capitan Valentino. Infatti, fu lui, insieme ad Egri Erbstein, a convincere il presidentissimo granata Ferruccio Novo ad optare per il Sistema, al posto dell’ormai vetusto Metodo. Dopo la stagione in granata, tornò alla Juventus e nel periodo a cavallo della guerra funse da tecnico giocatore prima di abbandonare l’attività, con cifre comunque di assoluto rilievo: 131 reti segnate in 247 partite ufficiali nella Juventus, cui vanno aggiunte 7 reti in 25 partite con il Torino. Niente male per uno che giocava con una gamba sola
    Oltre a lui, c’era un altro erede di Ernesto Aldo, il quale però, era una via di mezzo tra il padre e il fratello. Attaccante dotato di buona tecnica, anche lui, ebbe un inizio di carriera folgorante. Dopo aver esordito in serie A giovanissimo, nel Torino, andò al Casale, ove segnò ben sedici reti in una provinciale che doveva badare soprattutto a difendersi. La grande performance nel Monferrato, gli valse la chiamata della Fiorentina, ove non ebbe soverchie difficoltà a confermare il suo fiuto della rete, pur non giocando moltissimo. Acquistato dal Palermo ribadì di essere un attaccante di grandi risorse. Poi, però, all’improvviso arrivò una crisi nera, che fu spiegata efficacemente dal “Littoriale”, in un resoconto del 1934, quando il quotidiano sportivo spiegò che Borel era il centravanti tipo, quello che pensava solo alla fase di attacco, disinteressandosi di quanto accadeva quando non era in possesso del pallone. E con l’evoluzione del gioco, quelli come lui, che non avevano mezzi tecnici straordinari, stavano per essere messi ai margini. Infatti, tornato a Torino, stavolta nella Juventus, confermò la sua crisi. In tre anni giocò trentasei gare, mettendo a segno appena sette reti, una miseria per uno come lui, abituato ad andare ogni anno in doppia cifra. Ormai la sua carriera stava andando in picchiata: avrebbe giocato ancora una stagione a Novara, in serie A per poi andare a a spegnersi a Savona, in terza serie.. Era un buon calciatore, ma sicuramente non della levatura del fratello Felice, dal quale fu chiaramente oscurato, pur avendo avuto una carriera di discreto rilievo, il cui compendio più efficace sono i 45 centri raccolti nella massima serie.

    FONTE - ILCALCIODIUNAVOLTA.MYBLOG.ORG
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    Domenico Donna
    Domenico Donna.JPG
    Dati biografici
    Nazionalitàbandiera Regno d'Italia
    Calcio Football pictogram.svg
    Dati agonistici
    RuoloAttaccante
    Carriera
    Squadre di club
    1900-1910Juventus Juventus18 (6)
     
    Domenico Donna (1883 – ...) è stato un avvocato e calciatore italiano, di ruolo attaccante.

    Biografia
    Studiò al liceo Massimo D'Azeglio ed in seguitò si laureò, divenendo avvocato.

    Fu tra i soci fondatori della Juventus.

    Carriera calcistica
    Domenico Donna fu uno dei primi giocatori della Juventus, dove ebbe il ruolo di attaccante. Fece il suo esordio l'11 marzo del 1900 contro Unione Sportiva Torinese, partita persa per 1-0. La sua ultima presenza fu invece contro il Torino, partita persa per 3-1. Durante le sue undici stagioni bianconere collezionò 18 presenze e 6 gol. Fu uno dei protagonisti del primo scudetto juventino, nel 1905.

    Il 17 aprile 1904 partecipa, seppur membro della prima squadra, alla finale della prima edizione della Seconda Categoria, sorta di campionato giovanile ante-litteram, contro il Genoa. La vittoria arrise ai liguri che si imposero per 4-0.

    Palmares
    • Scudetto.svg Campionato italiano: 1
    Juventus: Prima Categoria 1905



    FONTE - WIKIPEDIA.ORG

    Edited by ilvento71 - 22/2/2014, 22:35
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    Domenico Durante
    Domenico Durante.jpg



    Dati biografici
    NomeDomenico Maria Durante
    Nazionalitàbandiera Regno d'Italia
    Calcio Football pictogram.svg
    Dati agonistici
    RuoloPortiere
    Ritirato1911
    Carriera
    Squadre di club
    1901-1911Juventus Juventus29 (-34)




    Domenico Maria Durante (Murazzano, 1879 – Torino, 1944) è stato un pittore e calciatore italiano, di ruolo portiere, che alcune fonti riportano con il nome Luigi

    Calciatore
    Durante fu il secondo portiere della storia della Juventus, ma il primo a ricoprire tale ruolo per più di una stagione. Il suo esordio avvenne contro il Milan il 28 aprile 1901, partita vinta dai rossoneri per 3-2. L'ultima partita avvenne invece nel Derby della Mole, il 26 febbraio 1911, partita vinta dai granata per 2-1. La sua carriera nella porta bianconera durò undici stagioni, in cui collezionò 29 presenze e subì 34 gol. Nel 1905 fu uno dei protagonisti del primo scudetto della storia della Juventus.

    Pittore e disegnatore
    Di professione pittore partecipò a molte esposizioni e fu più volte invitato alla biennale di Venezia. Si distinse particolarmente come ritrattista e paesaggista. Svolse anche l'attività di disegnatore, sotto lo pseudonimo di Durantin. Fu illustratore del mensile Hurrà Juventus e delle campagne promozionali dei bianconeri torinesi.

    Palmares
    • Scudetto.svg Campionato italiano: 1
    Juventus: Prima Categoria 1905



    FONTE - WIKIPEDIA.ORG
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    La Prima Categoria che coronò la stagione sportiva 1905 fu l'ottavo campionato italiano di calcio.

    Formula
    Visto il successo delle prime sette edizioni, la Federazione, fresca di ammissione alla FIFA nel 1904, decise di implementare il campionato dandogli una formula più organica. Per la prima volta vennero introdotte le gare di ritorno in loco dell'eliminazione secca precedentemente in auge. Fu mantenuta la suddivisione fra eliminatorie regionali e fase nazionale, tuttavia venne abolito il sistema del challenger round cosicché anche i campioni in carica furono obbligati a superare le eliminatorie come le altre squadre. Inoltre il titolo non fu più assegnato con una finale, bensì con un triangolare fra tutti e tre i campioni regionali.

    Avvenimenti
    Le partecipanti all’edizione del 1905 di fatto furono cinque. La FC Torinese rinunciò a disputare lo scontro diretto con la Juventus, nel girone piemontese, e diede carta bianca ai futuri campioni, che passarono il turno con un 3 a 0 per rinuncia. Le squadre dopo aver disputato un girone eliminatorio si affrontarono in un girone finale che decretò i bianconeri campioni dopo una classifica all’italiana simile a quella dei giorni nostri.

    Formula diversa dagli altri anni fu quella che non ammise i detentori del titolo direttamente in finale. Così nel girone ligure il Genoa se la dovette vedere con i cugini dell'Andrea Doria e il passaggio al girone finale fu tutt'altro che scontato, ci volle lo spareggio del 19 febbraio per decretare i grifoni vincenti.

    Nel girone lombardo una sorprendente matricola del campionato, la US Milanese liquidò il Milan in un doppio incontro pieno di gol, dal risultato storico, per il numero totale di reti realizzate in una sola partita: ben tredici. Così queste furono le tre società che si disputarono il primo girone finale della storia: Juventus, US Milanese e Genoa.

    Liguria
    1. Genoa Genoa - Genova
    2. Andrea Doria Andrea Doria - Genova

    Piemonte

    1. Juventus Juventus - Torino
    2. Ritiratasi: FC Torinese FC Torinese

    Lombardia

    1. Milan Milan - Milano
    2. US Milanese US Milanese - Milano

    Eliminatorie
    Liguria
    05.02.1905 Genoa - Andrea Doria 0-0
    19.02.1905 Andrea Doria - Genoa 0-1 Agar

    Piemonte
    Le eliminatorie piemontesi non ebbero luogo in quanto il Football Club Torinese, in un primo tempo iscrittosi al torneo, successivamente si ritirò, lasciando vittoria e passaggio del turno a tavolino alla Juventus.

    Lombardia
    12.02.1905 Milan - US Milanese 3-3 2Carrer 1Trerè I (MI) 3Recalcati (US)
    19.02.1905 US Milanese - Milan 7-6 2Varisco 1Franzosi (US) 2Trerè I (MI) gli altri marcatori sono sconosciuti

    Girone nazionale
    Dopo due anni in cui la vittoria fu solo sfiorata, nel 1905 la Juventus riuscì a cogliere il suo primo titolo tricolore. La nuova formula delle finali nazionali metteva di fronte tutti e tre i campioni regionali. La sorpresa arrivò dalla Lombardia dove il Milan, alle prese con un ricambio generazionale per l'addio di molti dei suoi fondatori inglesi, fu per la prima volta eliminato dall'US Milanese in due gare spettacolari come sovente se ne verificavano all'epoca.

    Nel Girone Finale però i meneghini dalla maglia a scacchi giocarono il ruolo del vaso di coccio. Persero i loro primi tre incontri, mentre gli scontri diretti fra la Juventus e il Genoa finivano in entrambi i casi in parità. Quando all'ultima giornata i Grifoni accolsero la Milanese sicuri di una facile vittoria che li avrebbe condotti allo spareggio, avvenne l'imponderabile perché, forse per un eccesso di sicurezza, i rossoblù non andarono oltre ad un pareggio.

    05.03.1905 Juventus - US MIlanese 3-0
    12.03.1905 Genoa - Juventus 1-1
    19.03.1905 US Milanese - Genoa 2-3
    26.03.1905 US Milanese - Juventus 1-4
    02.04.1905 Juventus - Genoa 1-1
    09.04.1905 Genoa - US Milanese 2-2


    Classifica finale 1905PtGVNPGFGS
    Scudetto.svg1.Juventus Juventus6422093

    2.Genoa Genoa5413076

    3.US Milanese US Milanese14013512



    SQUADRA CAMPIONE



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    Il torneo di Prima Categoria (non più Campionato Federale di Football) che coronò la stagione sportiva 1904 fu il settimo campionato italiano di calcio. Contemporaneamente ad esso, nacque il campionato riserve definito Seconda Categoria

    Torneo ad eliminazione diretta, con eliminatorie su base regionale. Il tabellone prevede un sistema di challenger round in base al quale i campioni in carica accedono direttamente alla finale.

    Campioni in carica
    1. Genoa Genoa - Genova
    Sfidanti
    Piemonte
    1. Juventus Juventus - Torino
    2. FC Torinese FC Torinese - Torino

    Lombardia e Liguria

    1. Milan Milan - Milano
    2. Andrea Doria Andrea Doria - Genova

    Eliminatorie Regionale/Interregionale
    06.03.1904 (Milano)
    Juventus - FC Torinese 3-2
    Milan - Andrea Doria 1-0
    Kilpin

    Semifinale
    13.03.1904 Milano
    Milan - Juventus 1-1 (dts)
    Scotti (MI) Streule (JU)

    Semifinale ripetizione
    20.03.1904 Milano
    Milan - Juventus 0-3
    Ferraris, Streule, Gibezzi

    Finale
    27.03.1904 Genova
    Genoa - Juventus 1-0
    65'Bugnion

    Il campionato del 1904 ebbe identico esito di quello precedente del 1903. La Juventus, che era andata ancora a vincere a Milano contro i rossoneri, dovette a sua volta soccombere al Genoa che si aggiudicò la finale grazie ad un grandissimo gol del terzino svizzero Étienne Bugnion il quale, complice il forte vento favorevole, con un tiro direttamente dalla propria metà campo sorprese il portiere bianconero Luigi Durante. I Grifoni, vincitori di sei delle sette edizioni del campionato italiano, conquistarono così anche la Coppa Fawcus, abbinata allo stesso torneo con formula triennale.

    SQUADRA CAMPIONE



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    caio
    Caio, il veloce declino del pallone d'oro Under 20

    A posteriori sembra facile ma era onestamente difficile non immaginare una permanenza anonima se ti chiami Caio. E così è stato, anche se le premesse iniziali facevano presagire tutt'altro.

    Nell'aprile del 1995 va in scena in Qatar il mondiale Under 20. Fra i favoriti della manifestazione non poteva mancare il Brasile, che poteva schierare in quell'occasione un diciottenne Denilson, da lì a poco stella della Seleçao nel torneo di Francia e acquistato per una cifra record dal Betis. Ma in quella rassegna iridata fu un altro giocatore che saltò all'occhio di tifosi, stampa e osservatori, il suo nome è Caio Ribeiro Decoussau. Faccia pulita, da bravo ragazzo, letale sotto porta. Nel torneo segna in tutti i modi e trascina in finale la Nazionale: due reti nel girone contro Siria e Qatar, poi prende per mano la squadra nell'eliminazione diretta. Contro il Giappone è sotto di un gol e Caio in un quarto d'ora con una doppietta ribalta le sorti della qualificazione. In semifinale c'è il Portogallo, la partita non si sblocca fino alla zampata dell'attaccante proprio al 90°. In finale la Seleçao cederà contro l'Argentina, Caio si consolerà vincendo il "pallone d'oro" della manifestazione, dedicato al miglior giocatore del torneo.

    L'attaccante in patria milita nel Sao Paulo e nonostante sia giovanissimo nel suo palmare può già sfoggiare Copa Libertadores, Recopa Sudamericana e Copa Conmebol. Nel campionato brasiliano già gioca e segna ma è il mondiale under 20 a consacrarlo e a far capire che il suo futuro da lì a poco sarebbe stato in Europa. La spunta l'Inter di Massimo Moratti, nuovo presidente che ha acquistato il club da qualche mese. I nerazzurri per la stagione 1995-96 hanno già da rimpiazzare il deludente Sebastian Rambert, che non gioca mai e lascia a campionato in corso. Si punta quindi sul brasiliano, il costo è di 7 miliardi di lire, che potrebbero sembrare un buon investimento viste le credenziali e la prospettiva del ragazzo, appena ventenne. Se però Rambert non gioca mai, se non in una partita di Coppa Uefa e di Coppa Italia, le cose per Caio non cambiano molto. Arriva nel mercato di novembre e gioca subito in Coppa Italia, poi il tecnico Roy Hodgson lo schiera in campionato 6 volte, sempre in spezzoni di gara. Il brillante attaccante del mondiale in Brasile sembra un timido studente smarritosi nel campo di San Siro. Resterà nell'ombra di Ganz e Branca per tutta la stagione. Hodgson lo boccia e per la stagione seguente l'Inter fa arrivare Ivan Zamorano e Yuri Djorkaeff. Insomma, non c'è praticamente spazio per Caio che però essendo stato un investimento in prospettiva non può essere bruciato così in fretta. Si decide così di prestarlo al Napoli, nella speranza che in maglia azzurra faccia vedere il suo potenziale. Il giocatore si gioca il posto con Nicola Caccia, Arturo Di Napoli e Alfredo Aglietti. Sembrano ci siano buone possibilità di vederlo titolare e invece anche stavolta è costretto a fare la comparsa. Gigi Simoni gli concede 20 presenze, anche qui quasi sempre a partita in corso. Riesce nell'impresa di non segnare nemmeno una rete, tanto basta per sancire la bocciatura definitiva anche da parte dell'Inter, che lo rispedisce in Brasile. Tornato in patria a 22 anni Caio avrebbe tutto il tempo di ricostruirsi una credibilità, veste anche maglie prestigiose come quelle di Santos, Flamengo, Fluminense e Gremio, ma il suo contributo sottoposta è sempre deludente. Fa notizia il suo ritorno in Europa in una squadra minore, l'Oberhausen, Serie B tedesca. Un fiasco raccontato dai numeri: 15 presenze, 1 gol. Il secondo mesto ritorno in Brasile e una carriera chiusa a 31 anni.

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    Sforza, salvato dal dimenticatoio grazie ad Aldo, Giovanni e Giacomo

    Se non fosse per Aldo, Giovanni e Giacomo il suo nome sarebbe finito nel dimenticatoio come tanti giocatori passati in Serie A. Il successo di "Tre uomini e una gamba" l'ha reso immortale. Scena: Giacomo viene costretto a passare la notte in ospedale, ma è sprovvisto di pigiama. Ci pensa Aldo a prestargli il suo:, che non è niente meno che una maglietta tarocca dell'Inter, e siccome quella di Ronaldo era finita, aveva ripiegato sul numero 21, ossia Ciriaco Sforza.

    Le generazioni di oggi lo ricordano così, quelle future sapranno della sua esistenza finché la popolarità del film rimarrà. E dire che ai tempi Sforza era un fior di giocatore, e il suo acquisto, nell'estate nel 1996 era stato accolto con grande soddisfazione dal pubblico e ammirazione dagli addetti ai lavori. Il buon Ciriaco, che dal nome tradisce origini irpine, nasce in Svizzera e si mette in mostra nell'Aarau prima e nel Grasshoppers poi. È un fine centrocampista con buona visione di gioco e le sue qualità balzano agli occhi di osservatori e dirigenti di Serie A. Costerebbe davvero poco, ma nessuno ci crede fino in fondo. A differenza del Kaiserslautern che ringrazia il poco coraggio delle nostre e se lo porta a casa. Fa due stagioni straordinarie che gli valgono l'ingaggio da parte del Bayern. Nel frattempo gioca in mondiali Usa '94 e gli Europei in Inghilterra due anni dopo. La sua stella è in forte ascesa e a metà anni '90 è considerato uno dei più forti nel suo ruolo.

    Massimo Moratti, diventato presidente a febbraio 1995, dopo una prima stagione interlocutoria, culminata con la qualificazione in coppa Uefa, decide di fare sul serio e costruire uno squadrone da scudetto: sistema l'attacco con Djorkaeff e Zamorano, la difesa con Angloma e Galante. A centrocampo arriva Winter e infine, ad agosto, arriva la ciliegina sulla torta: per 6 miliardi viene strappato al Bayern proprio Ciriaco Sforza. L'Inter è ormai una corazzata e la favorita d'obbligo per la vittoria finale e il campionato. Prima giornata, si va a Udine: passano 10 minuti e da un calcio d'angolo Sforza raccoglie il pallone e dopo averlo lasciato rimbalzare una volta scarica un sinistro che s'infila nel sette più lontano: è il fantastico gol che regala all'Inter la vittoria per 1-0. Tutti in quella sera si sfregano le mani, sempre più convinti della bontà dell'acquisto. Il secondo indizio tre giorni più tardi: si va nella piccola Guingamp per un incontro di Coppa Uefa, Sforza da oltre venti metri fa partire un bolide imparabile, stavolta di destro, che si infila ancora una volta nel sette.

    Il resto della stagione non è però secondo le aspettative: l'Inter lotta nelle prime posizioni ma non trova nello svizzero il centrocampista in grado di dare ordine alla squadra. Due reti al Boavista in Coppa Uefa gli fanno riguadagnare punti, ma il credito inizia piano piano a svanire. Il giocatore patisce in mezzo la grande personalità di Paul Ince, col quale si pesta i piedi. La convivenza forzata con l'inglese e un approccio non dei migliori con la Serie A lo rendono sempre meno importante: troppo lento, d'altronde, per il nostro campionato. L'Inter, nonostante tutto, con lui in campo arriva terzo in campionato e alla finale di Coppa Uefa. Alla fine saranno 26 partite in Serie A, con l'unico gol all'esordio dopo 10 minuti come lampo da ricordare. Non ci sarà nessuna prova d'appello, in estate tornerà al Kaiserslautern e sarà il trascinatore di una squadra che riuscirà nell'impresa di vincere da neopromossa la Bundesliga. Tanto basta per fargli riacquistare credibilità e riportarlo ancora al Bayern, dove vincerà pure la Champions League, se pur non giocando la finale. Che ironia della sorte fu disputata a San Siro, nello stadio dove non è riuscito a lasciare un segno.

    Fonte - Tuttomercatoweb.com
  15. .
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    Perdomo, entrato nel mito per il cane di Boskov

    Il Genoa dell'estate 1989 si appresta ad affrontare con grande entusiasmo il campionato di Serie A, 6 anni dopo l'ultima volta. Franco Scoglio, tecnico artefice della promozione, chiede ed ottiene di andare in Sudamerica per pescare quei giocatori che possano aiutare il Grifone a mantenere la categoria. Il professore si concentra in Uruguay, dove la squadra nazionale ha appena ottenuto un brillante secondo posto in Copa America, dietro al Brasile padrone di casa.

    Il "volante" della celeste è José Perdomo, giocatore che, se pur lento, mostra grande grinta e personalità. Le sue prestazioni convincono Scoglio che non esita a portarlo in Italia. Il prezzo, poi, sembra un affare: solo 130 milioni di lire. Oltre a Perdomo verranno acquistati altri due uruguayani: Ruben Paz e Pato Aguilera.

    E se questi ultimi due si integrano subito nella nuova realtà (soprattutto Aguilera), Perdomo parte piuttosto male. Il centrocampista è anonimo, azzecca pochissimi passaggi e si fa notare per un'eccessiva lentezza per i ritmi della Serie A. Lentezza che porta ad aumentare l'aggressività, tanto che i cartellini gialli fioccano sin da subito. Anche questo aspetto era da mettere in preventivo, considerato come lo stesso giocatore nelle interviste sventolasse ai quattro venti la sua attitudine nel ricevere ammonizioni. Tuttavia il Grifone è protagonista di un buon inizio di stagione e le prestazioni del giocatore non vengono notate troppo. E in fondo, essendo straniero, va aspettato.

    Il Genoa inizia sul finire del girone d'andata a calare e di conseguenza i limiti di Perdomo, che nel frattempo non ha compiuto alcun progresso, anzi, iniziano a palesarsi. La tifoseria inizia a prenderlo di mira, l'unico che lo difende è Franco Scoglio, che non accetta di perdere la sua scommessa e imperterrito lo piazza davanti alla difesa, sempre e comunque titolare. L'uruguayano salta le partite solo per infortunio e per le squalifiche, dovute all'esagerato numero di cartellini gialli. Arriviamo a febbraio e i primi, impietosi giudizi calano su di lui. Il più cattivo e al tempo stesso esilarante, per questo rimasto nella storia, è quello di Vujadin Boskov nella settimana che porta al derby con la Sampdoria. Le parole del tecnico blucerchiato sono eloquenti: "Se sciolgo mio cane in giardino lui gioca meglio di Perdomo". Apriti cielo. Boskov cerca di correggere il tiro, ma ciò che ne esce fuori è un altro giudizio ben poco lusinghiero nei confronti dell'uruguayano: "Io non dire che mio cane gioca meglio di Perdomo. Io dire che lui potere giocare a calcio solo in parco di mia villa con mio cane". La risposta sul campo di Perdomo è un cartellino giallo per un inutile fallo dopo 30 secondi dal calcio d'inizio. Se non è un record poco ci manca.

    A fine stagione il Genoa riuscirà a salvarsi, anche se dovrà aspettare l'ultima giornata. Il club non ci pensa due volte e a fine stagione gli dà il benservito, cedendolo al Coventry. Da lì in avanti una parabola discendente fatta di continui fallimenti, tali da portarlo a chiudere la carriera addirittura a 27 anni. Dopo un anno di pausa la tentazione al calcio giocato si fa sentire e torna così a giocare in patria, in quel Peñarol dove si mise in luce a inizio carriera. Ma anche l'operazione nostalgia si rivela un flop e dopo un ultimo tentativo sempre in Uruguay, al Basáñez, chiude definitivamente col calcio giocato a 30 anni.

    Fonte - Tuttomercatoweb.com
285 replies since 28/1/2007
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